Dal blog Geyser
Tornavo,
giorni fa, alla baracca sotto il sole di novembre, con in spalla
qualche quintale di legna tagliata. Artemisia mi ha guardato come se
avesse visto un orso. Ora, dico io, va bene che sono solo un boscaiolo
(l’intellettuale è lei), ma vi pare questo il modo? Sulle prime fa finta
di niente, fumando le sue sigarette da regina, poi mi dice: “Perché non
trovi un altro scrittore da intervistare? La tua legna sa troppo di
bosco. Voglio qualcosa che sappia di... umano.
Ecco
il come e il perché mi sono imbattuto in Andrea Cinalli. Artemisia ha
gradito molto la mia scelta. Io, che di scrittori so ben poco, e di
omosessuali ancora meno, non sapevo come maneggiare questa patata
bollente. Alla fine ho seguito l’unica strada che conosco: quella
dell’istinto. Ha ragione Artemisia, quando mi guarda come fossi un orso.
Un po’ lo sono.
Dottor
Cinalli, Andrea, carissimo, ben trovato! Ho davanti a me il tuo libro.
La parte più difficile è convincere la gente che sia un bel libro. Te lo
chiedo nella maniera più... più... Be’, te lo chiedo e basta: se
dovessi presentare il tuo libro a un alieno, cosa diresti?
Dentro,
fuori e intorno alla gabbia parla di due membri di differenti specie di
alieni come voi che si innamorano. È un amore impensabile, il loro.
Nessuno può crederlo possibile, proprio perché sono diversissimi. Questo
li spinge ad agire di nascosto, senza che nessuno sappia mai niente.
Però... Vedo che la materia grigia non ti manca. E se dovessi parlarne agli umani? È difficile, lo so...
Dentro,
fuori e intorno alla gabbia, Edizioni Croce, è un romanzo che parla
del bisogno di trovare un’ancora di salvezza in questo cazzo di mondo
senza punti di riferimento né una vera bussola che sappia guidarti.
L’ancora di salvezza di Matilde è Gaetano. Quella di Gaetano, Matilde.
Il loro legame è l’unica cosa che li fa sentire vivi, protetti, sereni.
Hai presente quel bisogno di trovare qualcuno che ti faccia sentire a
casa anche se da casa sei molto lontano? Ecco, Matilde e Gaetano quando
stanno insieme si sentono a casa. Questo amore nasce dove nessuno
avrebbe potuto sospettarlo: fra una ragazza lesbica e un ragazzo gay,
che insieme esplorano la bisessualità. Lo sfondo del romanzo è
un’associazione LGBT fittizia romana chiamata “Gay Troop”, e i temi di
contorno, che finisco per toccare attraverso le relazioni dei
protagonisti con tutti gli altri personaggi, sono la depressione,
l'omofobia e l’omogenitorialità. La struttura del romanzo ricorda un po’
quella delle moderne serie TV: ci sono due linee temporali che si
intrecciano per quasi tutto il romanzo, mentre i protagonisti si
raccontano in prima persona, ognuno nel proprio capitolo.
Per
scrivere la stesura finale del romanzo – prima ho fatto un sacco di
tentativi che non mi soddisfacevano – ho impiegato quattro mesi. Mi
ritengo molto fortunato ad aver trovato quasi subito un editore che mi
ha proposto un buon accordo di edizione senza chiedermi di sostenere
spese. Di solito, si impiegano anni per trovarne uno.
Hai
detto... comunità LGBT, giusto? Ecco, Artemisia ci tiene a queste cose.
Io non so’ manco cosa vuol dire. Magari puoi illuminarmi, piccolo uomo?
La
comunità LGBT l’ho conosciuta attraverso le associazioni LGBT. E le
associazioni LGBT svolgono un lavoro egregio per il riconoscimento
politico e legale dei diritti della comunità, per difendere i ragazzi in
difficoltà che vengono cacciati di casa dopo aver fatto coming out. Ma
io dopo averne frequentata una ho lasciato perdere perché credo che
lottare solo contro l’omofobia significhi prendersela con la punta
dell’iceberg. Credo che i mali dell’Italia siano più radicati e che
l’omofobia, così come la xenofobia e la transfobia, ne sia solo
un’espressione.
Io
sono del parere che tutte queste piaghe sociali abbiano un’origine
comune: il provincialismo. Ossia quella vigliaccheria, quell’incapacità o
paura di esprimere quello che davvero si pensa e quindi quella tendenza
a rifugiarsi nella frase fatta, che sembra cogliere l’essenza delle
cose ma in realtà non coglie nulla, oppure a rifugiarsi in quello è già
stato detto e ridetto e che è appunto diventato parola vuota, priva di
concretezza. Il provincialismo è anche quell’incapacità di allontanarsi
dal proprio modo di vedere le cose e comprendere davvero il punto di
vista dell’altro, e anche in questo caso entrano in gioco diversi
fattori: paura, stupidità, mancanza di educazione scolastica o umana
(spesso la seconda, perché riguarda anche gli “istruiti”). Il
provincialismo si può manifestare in ogni scelta quotidiana: nel modo in
cui comunichiamo, nel modo in cui stiamo in mezzo agli altri. E nessuno
è davvero immune a questo cancro. Anch'’io talvolta, troppo attaccato
alla mia prospettiva, evito il dialogo con gli altri, perché tendo a non
fidarmi, e mi dispiace.
I
media italiani sono campioni di provincialismo e ipocrisia: loro – chi
fa le fiction, chi fa giornalismo, chi fa varietà – dicono di
rispecchiare gli italiani, ma da ex studente di comunicazione so
benissimo che non è così; è la scusa dietro la quale si trincerano per
continuare a fare quello che hanno sempre fatto, ossia coltivare la
bruttezza e la volgarità, coltivare una comunicazione banale, priva di
mordente ed efficacia; gli italiani, che questi media li assorbono, si
sentono a loro volta legittimati a riflettere quei comportamenti e
quegli stili di pensiero. Si è così creato un circolo vizioso e nessuno
sa come uscirne.
Se
devo soffermarmi un attimo sul rapporto fra fiction italiana e
omosessualità, per essere più specifico, c’è da dire che alcune avevano
personaggi gay. Un medico in famiglia aveva Oscar, I Liceali uno dei
giovani protagonisti. Ma le tematiche LGBT, in mezzo a fiction con un
linguaggio e un respiro da sagra di paese (e la donna che deve fare la
brava moglie, e i figli che devono studiare sennò sono cattivi e ribelli
e mannaggia, “l’uomo che deve fare l’uomo”), sai cosa sono? Il classico
specchietto per le allodole. Un modo per illudere il pubblico che siano
al passo coi tempi quando in realtà sono la solita messa della domenica
(detta pure in un misto incomprensibile fra italiano e dialetto), e
l’universo LGBT, ricco e variegato, in quel tipo di fiction è stato
spesso appiattito e banalizzato perché potesse essere ricondotto
all’immaginario tipico della famiglia italiana, della tavola imbandita,
della povertà lessicale. Oggi, è vero, rispetto a quei prodotti un passo
avanti verso l’agognata qualità cinematografica c’è stato, ma ipocrisia
e provincialismo resistono: è stato proprio uno sceneggiatore a dirmi
che nella sua fiction ancora in onda avrebbe voluto dare spazio
all’omosessualità di uno dei suoi personaggi, ma non gli è stato
permesso.
Lungi
da me, poi, fare di tutta l’erba un fascio – ci sono sceneggiatori e
giornalisti bravissimi, e io ne ho conosciuti – però ce ne sono anche
molti di bigotti e provinciali: penso a un giornalista Rai molto
celebrato che su Twitter ha criticato la scena di sesso gay a tre fra i
personaggi della serie Netflix What/If, lamentandosi del fatto che fosse
“inutile”, quando in realtà era chiaramente uno snodo fondamentale
delle trame; penso anche a una sceneggiatrice conosciuta a Roma che
rimase quasi sconvolta quando le parlai di un amore complesso come
quello fra Carrie Mathison e Nicholas Brody di Homeland, o come quello
fra Hannibal Lecter e Will Graham di Hannibal.
Se
c’è, quindi, una battaglia che vale davvero la pena di combattere con
tutte le proprie forze – per poter vincere tutte le altre – è quella
contro i media italiani, e questa battaglia non consiste nel cambiare la
lingua o nel riscrivere la cultura e i film fatti in passati, no: lo
scopo di questa battaglia è portare i media italiani allo stesso livello
di libertà, creatività e professionismo di quelli americani, che sono i
veri maestri nella comunicazione. E questa battaglia richiede studio,
pazienza, impegno, e anche fallimento, quello temporaneo che ti ricorda
di restare sempre coi piedi per terra.
Perbacco,
non avrei saputo rispondere meglio! Anzi, a dirla tutta, io non avrei
saputo rispondere in nessun modo. Tu mi hai mostrato un mondo, ragazzo.
Devo ragionarci... Ma in tutto questo, Andrea chi è? Chi è la persona
che abita in te?
L’Andrea
persona è schivo, ha un discreto ego (se non lo avesse non
scriverebbe), vorrebbe sempre sfondarsi di carboidrati ma la voglia di
vedersi bello e magro allo specchio (talvolta) glielo impedisce. È
testardo, nel senso buono e nel senso cattivo. Vorrebbe tanto dalla vita
ma è capace di accontentarsi di poco. Vuole molto bene agli amici, ma
per farsene deve superare una forte diffidenza iniziale. È un tipo
preciso e meticoloso solo nelle cose che gli interessano davvero, le
altre le manda tranquillamente in vacca fregandosene di quello che gli
altri potrebbero pensare.
Personaggino
interessante. Sorrido diavolescamente! E l’Andrea scrittore? Perché non
vorrai mica farmi credere che siete la stessa persona, vero?
L’Andrea
scrittore è spesso attento e meticoloso, o almeno ci prova. Sa che
l’unico modo per riuscire nella scrittura è non lasciarsi dominare dalla
paura della pagina bianca e quindi la frega procedendo per tentativi
finché non si ritiene soddisfatto. Vorrebbe avere il controllo totale di
quello che scrive, essere il completo artefice di ogni successo o
fallimento: per questo, un domani, nonostante le belle e soddisfacenti
esperienze con gli editori non a pagamento, potrebbe valutare la strada
del self-publishing professionale o dell’indie-publishing, come si dice
oggi, ché fa più figo.
In
generale, come scrittore, è abbastanza metodico, o almeno lo era prima
del Covid: scriveva una cartella e mezzo al dì e poi leggeva romanzi per
un’ora. Oggi non ha la pretesa di raggiungere un certo numero di
caratteri e ci sono giorni in cui non scrive affatto. In ogni caso sta
rispolverando il vecchio sogno di scrivere articoli, ma non lo farà più
in veste giornalistica.
Le
tue parole mi riecheggiano nelle orecchie. Perdonami, ho ancora tre
quintali di legna sulla spalla. Ti ringrazio per la partecipazione e...
Voi, ricordatevi il romanzo di Andrea! Basta cliccare qui.