Oggi
è il gran giorno. Oggi mi sposo. Dovrei essere felice. Al settimo cielo. Eppure
non lo sono. Mi sento come se stessi andando a un funerale. Mio fratello, che
stamattina è venuto a salutarmi prima di fare un salto dal barbiere, ha notato
subito quanto fossi giù di corda. Mi ha dato una spallata, come facciamo sin da
piccoli. “Che cazzo c’hai, oh? Mica ci vuoi arrivare così all’altare?” Io mi
sono stretto nelle spalle e gli ho detto che tanto mi sarebbe passata, che
tanto quelle che mi leggeva in faccia erano solo le preoccupazioni sul futuro.
Perché tutti sanno che io penso al futuro. Mi vedono qui, presente, nella carne
e nello spirito, ma sono consapevoli che con la mente sono già agli inghippi
finanziari e famigliari che incontrerò lungo il cammino. Sono fatto così. Se
non pianifico, muoio dentro.
Ma
oggi quella che tinge di grigio antracite un umore che dovrebbe avere i colori
dell’arcobaleno è un segreto che mi porto dietro da un pezzo. Più o meno dagli
inizi della mia relazione con Stefania. Sono bisessuale. Mi piace la figa ma
anche il cazzo. Soprattutto il cazzo. Non lo sapevo prima di due anni fa,
quando, ubriachi fradici, io e il mio amico Guglielmo – che mi farà da
testimone di nozze – ci siamo scopati selvaggiamente svegliandoci il giorno
successivo tutti imbrattati di sborra. Da allora, con una certa regolarità – un
paio di volte a settimana – vado a farmi fare l’iniezione di cazzo da lui, che me lo srotola dentro con piacere, fiero di aver convertito anche me, lui che è orgogliosamente omosessuale, alla sodomia. Non direi che quella
con Guglielmo sia una relazione vera e propria. Anzi, non la chiamerei affatto
relazione. Sentimenti non ce ne sono, in gioco ci sta solo una fame carnale che
si placa dopo un’ora piena di cavalcate.
Ma
anche se relazione non è, questa abituale rimestata di corpi inizia ad apparire
come un grosso segreto. Un segreto di proporzioni bibliche che non posso fare
finta di schiacciare sotto le promesse nuziali. Il matrimonio è un’istituzione
sacra. E io la rispetto profondamente. Non si può cementare un’unione con le
menzogne.
È
da qualche settimana, col giorno fatidico che guadagna sempre più terreno sul
calendario, che mi riprometto di rivelare tutto a Stefania. Ho preparato anche
il discorso. Ho scelto accuratamente ogni parola e valutato ogni possibile
reazione che ne potrebbe scaturire. Se a ‘momenti di debolezza’ le fosse sfuggito
un grido iroso, avrei ribattuto subito con ‘io amo solo te’. Se al mio
‘perdonami’ mi fosse arrivato uno sputazzo in pieno viso, non mi sarei neanche
pulito a dimostrarle che la sua saliva non mi fa schifo, ma che anzi mi piace
ancora. Però alla fine non le ho detto nulla. Da vigliacco quale sono, ho
lasciato che i giorni con tutta la paura e il terrore si accumulassero fino a
ridurmi al silenzio. E in tutto questo struggimento, non c’ho ‘manco pensato a
diradare le inseminazioni di sperma. Si sono svolte abitualmente, anzi, con più
frequenza di prima. Il sesso con Guglielmo mi ha aiutato ad alleviare i dubbi
che mi pesavano in testa. Almeno fino a ieri.
Oggi,
al pompino che mi ha fatto al risveglio, nella camera d’albergo vicino allo
strip club – ovviamente per maschietti gay – in cui mi ha trascinato la notte
prima, non ho sentito niente. L’eccitazione, quel fuoco che mi si scarica nelle
vene e mi risale lungo la schiena, non l’ho sentita mica. Neanche mi si alzava,
la bandiera. Era una moscia protuberanza che ‘manco un esercito di lingue
avrebbe potuto ravvivare. Guglielmo se n’è accorto subito, e dopo qualche
tentativo, a bocca spalancata, prima che l’esperienza si facesse umiliante, per
lui e per me, mi ha invitato a rimettere tutto nella patta.
“Amico,
oggi mi sa che non è il caso. Pronto a sposarti?”, mi ha fatto con un gran
sorriso.
Ora
sono nello stanzino del seminterrato di casa. Sto finendo di sistemarmi la
cravatta davanti allo specchio e aspetto che mamma e papà mi chiamino per
andare in chiesa. Mentre stringo il nodo, mi viene in mente che potrei anche
impiccarmi qui. Potrei appendermi al gancio che pende dal soffitto e fare ciao
ciao alle bugie e alle responsabilità. Ma la verità è che non ho le palle
‘manco per compiere un simile gesto. Sono così pavido, così stritolato dalla
mia meschina vigliaccheria, che non sono capace neanche di scegliere l’ultima
via di fuga che mi resta. Andrò all’altare, pronuncerò un solenne sì davanti a
tutti, ma non sarò io. Non il solito Fabrizio. Al mio posto ci sarà una
controfigura svuotata di tutto il ventaglio di emozioni possibili, che
approderà alla fine del giorno come un automa, per inaugurare una vita insapore
di ipocrisie.
Mia
madre – o almeno la sua faccia a forma di melanzana – invade il rettangolo
della porta e i miei pensieri. “Noi siamo pronti!”, fa con gioia incontenibile.
L’intonaco che qualche professionista del mascara le ha messo al posto del
trucco è già sbavato. Sicuro che prima di scendere si sia fatta uno di quei
pianti commossi in cui mette a confronto il bambino che ero con l’uomo adulto e
responsabile che non sono. È sempre così a ogni tappa decisiva dell’esistenza.
Il mio primo giorno di scuola mi ha versato un Arno addosso perché avevo
imparato a scrivere nome e cognome.
“Va
bene, mamma.” Mi guardo un’ultima volta nello specchio. Controllo se la
facciata di tranquillità è a posto, se non ci sono le screpolature delle
preoccupazioni. Mi giro di qua, mi giro di là. No, non c’è niente. Pronto alla
più grande menzogna della mia vita. Salgo le scalette e quando arrivo in cima,
stampo un bacetto sulla guancia di mamma. “FABRIZIO!”
Se
le lacrime le rovinano il trucco non le frega, ma se lo fa un gesto d’affetto
sì. Bella logica. Comunque, nel giro di tre secondi la faccia imbufalita già si
schiude in un sorriso felice. Mi tende il braccio e io intreccio il mio al suo,
pronti ad andare al patibolo.
In
chiesa, prima ancora di cominciare, c’è già uno scoppiettio di flash. Fotografi
impazziti che vogliono catturare ogni dettaglio della cerimonia ‘manco fossimo
delle celebrità da copertina. Renzo, mio cugino, mi saluta con la mano dalle
prime file della navata centrale. Teso come sono, rispondo con un cenno della
testa senza scompormi più di tanto. Quante cose vorrei raccontare a Renzo.
Renzo non è uno di quei cugini con cui scambi due chiacchiere solo a Natale e a
Pasqua, quando i genitori ti intrappolano nei loro riti famigliari. È un amico,
una persona che ascolta, che empatizza, che fa suo il dolore tuo e poi ti
vomita addosso una scarica di consigli che tu non saresti mai in grado di
elaborare. A Renzo avrei potuto raccontare tutto. Della bisessualità, del sesso
con Guglielmo, dell’amore che nonostante tutto provo per Stefania. Ma non l’ho
fatto. Forse perché certe verità non ero neppure capace di ammetterle con me
stesso.
Mi
sistemo a lato dell’altare, lì dove posso ammirare le facce sorridenti di tutti
i presenti, inclusi i genitori di Stefania che mi fissano con gli occhi che
lampeggiano di minaccia. Il loro eterno timore, e pure fondato, è che la faccia
soffrire, che succhi tutto quello splendore vitale che la infiamma di
entusiasmo strapazzandola a suon di infedeltà. Nonostante le mie poco convinte
rassicurazioni, le paure, imbottite di astio e diffidenza, sono ancora lì,
vigili negli occhi piene di venuzze violacee.
Saluto
i futuri suoceri con un altro cenno della testa, ma loro, anche se non posso
sentirli bene, mi pare grugniscano.
“Lasciali
perdere!”, mi sussurra mia madre. “Quando diventano consuoceri, ci penso io a
loro. Tu pensa solo a essere felice con Stefania.”
Oh,
grazie, mamma. Essere felice con Stefania. Sai sempre quali sono le parole
giuste da pronunciare, eh. Prima di tutto non so cosa sia la felicità. Ne ho
avuto vari assaggi, nel corso dei miei trent’anni, tutti flebili e transitori,
ma non ho mai davvero capito cosa fosse, come fosse fatta davvero. L’idea di
stare con Stefania poi mi fa sorridere. Ma è un sorriso puerile e innocente che
vale per le coppie di adolescenti. Per due adulti alle soglie della vita
matrimoniale è un flagello, una premonizione di instabilità.
Quando
guardo tutti gli invitati, quando li includo in un’occhiata ampia e larga
capace di abbracciare tutte e tre le navate, capisco esattamente quale sia la
scelta giusta da fare.
Stefania
nel suo sfavillante abito da sposa appare nel rettangolo luminoso della porta
col braccio infilato sotto quello del padre. Mentre avanza lungo il tappeto
rosso scocca sorrisi raggianti ai parenti e agli amici che la salutano con la
mano.
Sento
il battito cardiaco che accelera. Fra un po’ il cuore schizza fuori dal petto.
Ho paura di quello che sto per fare. Fino a pochi minuti fa mi sembrava la cosa
più logica e giusta. Ora inizio ad avere qualche dubbio. Il faccino di Stefania
stillerà lacrime, questo non lo posso evitare. E non posso neanche evitare gli improperi
che voleranno da entrambe le fazioni, la mia che si suppone debba appoggiarmi
in ogni scelta e non lo fa mai, e quella di Stefania, che avrebbe tutti i
motivi per darmi contro. Però lo sguardo affranto dei miei genitori non so se
riuscirei a sopportarlo. Mamma ha degli occhioni che quando si riempiono di
lacrime diventano smeraldi lucidi e tristi, e papà mette su l’espressione da
cucciolone bastonato con cui mi schiaffeggiava l’umore fin dalle prime
marachelle scolastiche. No, il dolore non so se sarei in grado di mandarlo giù.
Ho paura che mi mandi in pezzi, così come sta facendo l’ansia alle mie gambe.
Stefania
guadagna il mio fianco e infilo tutte le preoccupazioni sotto il sorrisone
bianco e lucente che le punto addosso. Lei mi sorride di rimando scostandosi il
velo che le pizzica una guancia.
“Signore
e signori, siamo qui riuniti per celebrare il matrimonio tra Fabrizio e
Stefania…”
“Ehm… vorrei dire prima una cosa.” È il momento. Adesso. Ora o mai più. Ora o un’eternità di menzogne. Ora o una vita scomoda che non è della mia misura. Stefania inarca le sopracciglia. È la prima che fiuta il pericolo. Tutti gli altri ci arrivano con grande ritardo, cullati in un momento di smarrimento fatto di bocche e occhi sgranati.
“Ehm… vorrei dire prima una cosa.” È il momento. Adesso. Ora o mai più. Ora o un’eternità di menzogne. Ora o una vita scomoda che non è della mia misura. Stefania inarca le sopracciglia. È la prima che fiuta il pericolo. Tutti gli altri ci arrivano con grande ritardo, cullati in un momento di smarrimento fatto di bocche e occhi sgranati.
“Sentite.
Io…” Stefania senza tanto dare nell’occhio mi pinza un lembo dello smoking fra
indice e pollice. Con la faccia terrorizzata mima un: ‘Ma che cazzo stai
facendo?’
Mi
sgancio dalle sue dita, perché so che non appena avrò finito quel tocco
delicato tramuterà in una possente sberla capace di rimescolarmi occhi, naso e
bocca, e proseguo, stavolta guardando con coraggio, uno per uno, genitori e
amici più cari. “Io oggi non posso sposarmi. C’è un’altra persona nella mia
vita…”
Ecco
la sberla. Sono così pronto a riceverla che invece riesco a schivarla. Stefania
si toglie il velo e lo getta furiosamente a terra. La mamma, intuendo quello
che sta per accadere, si precipita ad afferrarlo prima che possa calpestarlo
coi tacchi. Il padre, l’uomo che mi odia fin dal giorno del primo incontro –
ossia, una serata parecchio convulsa fra telefoni che squillavano a tavola e
richieste infastidite di spegnere, fra battute sporche che gli sbattevano
addosso senza scaturire le risate prefigurate e lagne politiche che invece non
suscitavano il mio interesse – si alza in piedi, con tutti i suoi cento chili
di vene varicose, porri e verruche e mi guarda. Mi guarda soltanto. Con
un’espressione che di primo acchito, a uno che è estraneo all’articolata
tavolozza espressiva della sua faccia, potrebbe persino risultare pacifica. Ma
io, che in questi anni ho imparato a conoscerlo un po’, so che dietro la calma
si agita un uragano di urla che aspetta solo un minimo innesco. Un’altra mia
parola, un cenno e si salvi chi può. E infatti quando il piede, mai troppo
lesto, si indirizza all’uscita, rimbomba: “BRUTTO FIGLIO DI PUTTANA, PEZZO DI
MERDA, SCHIFOSO BASTARDO CHE NON SEI ALTRO. MA COME CAZZO TI PERMETTI…”
I
miei piedi mi conducono fuori, nella brezza primaverile che mi sfrigola sulla
pelle. Ho il cuore che mi bussa insistente al petto e la dignità che sgocciola
a terra col sudore. Nonostante il velo opaco che mi oscura la vista, riesco a
distinguere la figura di Guglielmo che mi sorride e mi viene incontro.
Mi stringe forte.
“Almeno così potremo scopare senza più sensi di colpa.”
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