Non
ho mai avuto un amico. Un amico vero. Uno che alla fine di una lezione mi si
accucciasse accanto per sapere come stavo, che combinavo. Che mi stringesse una
spalla quando attraversavo un momento di sconforto e mi soffiasse nell’orecchio
una parola incoraggiante. Che mi accompagnasse a una festa giusto per non farmi
presentare da solo e morire d’imbarazzo. No, un amico così, proprio così, non
l’ho mai avuto. I figuri loschi e puzzolenti che mi si sono avvicendati al
fianco durante gli anni scolastici avevano solo una o due di queste
peculiarità. Mai un pacchetto completo, bello da scartare.
Crescendo,
avvicinandomi sempre più al confine fra adolescenza e maturità, ho coltivato la
speranza che un briciolo d’uomo scalcinato in linea coi miei interessi e i miei
turbamenti d’animo l’avrei trovato. Ho messo da parte persino la timidezza,
quando l’occasione fremeva di possibilità. Mi sono sforzato di essere, nello
spazio di una serata di festa, il tipo estroverso e ciarliero che non sono. Mi
sono avventurato fra intrecci di corpi in improvvisate piste da ballo col passo
sciolto e navigato di chi certe sinfonie festaiole le ha percorse e ripercorse.
Ho salutato gente che non conoscevo venendo ricambiato solo per l’allegria che
sprizzavo. Ma a luci spente, a ballo finito, a stomaco ribaltato, mi sono
accorto che niente era davvero cambiato. Gli altri erano sempre gli altri,
compatti, uniti. E io ero sempre io, un cane solo e sfigato.
Devono
essere stati quelli i momenti in cui ho realizzato che le amicizie non vanno
forzate, devono scivolare lungo il loro naturale iter di saldamento senza
spingere troppo il dialogo e senza distorcere un grammo della propria
personalità per facilitare l’incastro. Le amicizie nascono sull’equilibrio. Un
equilibrio che dipende solo in parte dal nostro controllo, il più se lo gioca
l’alchimia delle nostre percezioni e dei nostri vissuti che ci restano appesi
addosso come fantasmi.
È
stato tosto far arrivare il pensiero a una profondità che non aveva mai
toccato, ma la spinta congiunta di tutte le delusioni mi ci ha costretto. E
oltre a farmi sentire più vecchio e più saggio, m’ha tolto di dosso un’ansia
che neanche mi ero accorto di avere. Mi stringeva la gola, mi si sedeva sul
petto, mi bagnava gli occhi, e neanche sapevo cosa fosse.
Oggi
che la mia vita è più tranquilla, che non ho interesse a imbellettarmi
l’esistenza con racconti fatati in bilico fra erotismo e bagordi notturni per
aggiungerle una tacca di charme, che sono seguace del culto dell’egocentrismo
immolando ogni forma di perbenismo, ecco che qualche incravattato collega
fresco di assunzione prova a ingraziarmi con estemporanee offerte di bevute. Io
oppongo il mio ‘no’, duro e serrato, e non mi preoccupo ‘manco di appiccicarci
una motivazione. È ‘no’, caro, prendilo, ingoialo e portalo a casa.
Che
senso ha stringere amicizia adesso, alla soglia dei quarant’anni, quando un
modus vivendi è già tracciato e ogni deviazione sa di rischio inutile e
puerile? Preferisco la fortezza della mia solitudine, il riparo più leale che
ho.
Mattia
entra nel mio ufficio, si siede senza che l’abbia invitato, incrocia le gambe e
inizia a farfugliare di un caso difficile che l’ha tenuto impegnato per
parecchi mesi. Non sto neanche a sentirlo. Lo lascio portare a termine lo
sfogo, e quando indurisce la linea orizzontale delle labbra, con le estremità
delle sopracciglia che cascano nel corrucciamento, lo delizio col consiglio
preconfezionato che rivolgo praticamente a tutti, sia che si appellino per
mutande accidentalmente inzuppate di piscio in bagno che per una controparte
forte e arguta che tira fuori un asso nella manica una parola sì e l’altra
pure: “Fa’ quello che ti senti.” Ovviamente se applicato al piscio, molte lo
interpretano come libertà di girare per lo studio senza più mutande, il che
male non è, ma quando di mezzo c’è il lavoro, scatta subito il gonfiore di
petto che è tre quarti ritrovata ispirazione e un quarto orgoglio spruzzato di
egocentrismo. Ah, pure un pizzico di cattiva digestione.
Mattia
però rimane fermo e immobile, per nulla soddisfatto. Mò sono io ad accigliarmi.
Com’è che la mia massima non attecchisce più? Devo fare la fatica di trovarne
una nuova?
“Ma
come posso fare quello che sento, se quello che sento spingerebbe un ragazzino
lontano dai suoi genitori e dai suoi amici?”
Amici.
Lontano dai suoi amici. Sto per esplodere in una risata ma mi trattengo. “Gli
fai un grande favore a quel piccoletto, fidati. Amici, ma perché esistono
ancora? Non si son estinti?”
Mattia
mi appunta due occhi carichi di riprovazione. “Sai, a volte penso tu sia più
cinico di un camorrista.”
Allargo
le braccia. “Me lo dicono anche le mie puttane quando non le pago abbastanza.”
“Va’
a farti fottere.” Lascia la stanza con un’uscita degna di una mignottella
tradita. Provo a sorridere, ma il sorriso non regge più di un secondo. È la
prima volta che mi viene rivolto un augurio così sincero.
Al
bar sotto lo studio, alla fine del giorno, mi ritrovo con la mia fida pinta di
birra in mano. La assaggio, la rimetto sul bancone, penso alla mia vita che non
va da nessuna parte, mi deprimo e la riassaggio di nuovo. Procede più o meno
così fino a che non ho toccato il fondo del bicchiere. Ogni tanto butto
l’occhio su qualche bella donna venuta a sculettare un po’ fra i tavoli, a
raccogliere quei due complimenti che le tengano su l’autostima. Per carità,
niente di paragonabile alle gnocche da calendario – c’è sempre qualche evidente
imperfezione a sporcarle – però ci si accontenta.
I
miei colleghi non vengono mai qui. Sono gente da locali chic, che scolano drink
solo per farsi i selfie da mettere su Facebook. Qui hanno paura di beccarsi la
malaria o qualche malattia venerea starnutendo. Quanto mi divertivo,
all’inizio, a invitarli a raggiungermi e a fare l’offeso in caso di rifiuto.
Era uno spettacolo vederli con la smorfia di disgusto congelata in faccia che
filtrava mezzi sorrisi e a fare lo sforzo di ricacciare un urlo in gola quando
proponevo una bevuta e poi un’altra e poi un’altra ancora.
Una
mano mi si scava sulla spalla. Presa decisa e decisamente maschile. Trattandosi
di maschio, non ho neanche tanta fretta di girarmi. Ma lo faccio. È Mattia,
senza più il broncio e con una luce strana negli occhi. “Senti, Carlo…” Non mi
piace quest’esordio. Già si percepisce una richiesta sottesa, e le richieste
sottese diventano moduli da firmare, lavori extra per cui non si guadagna
niente e odore di scoregge da respirare nelle aule di tribunale. “…Perché sei
sempre così stronzo? Davvero non ti interessa della fine che fa un bambino?”
Ah, niente incarichi aggiuntivi, si gioca sul personale. Va bene, è una partita
che posso sostenere.
“Definisci
stronzo.”
“Sei
maleducato, non ti interessa di niente e di nessuno, sei egoista, ti circondi
di belle donne per poi scaricarle dopo aver finito i tuoi porci comodi, detesti
tutti noi colleghi che nonostante tutto abbiamo sempre nutrito grande rispetto
per te e vogliamo solo conoscerti meglio. Perché?”
Prendo
la mia pinta. Sto per buttare l’ultima goccia rimasta, ma mi blocco con la
lingua di fuori. Mi giro verso Mattia con l’espressione che mi tocca vertici di
serietà mai lambiti prima. “Perché le persone sono stronze. Acidi figli di
puttana che chiedono lealtà unidirezionale. Tu gliela concedi. Ti voti a quel
rapporto. Ma poi si stufano perché trovano qualcuno con cui sostituirti, più
brillante, spiritoso quanto una lavastoviglie sporca. Non importa che tu ci
rimanga male, che ti facciano sentire svuotato come un intestino dopo un
clistere. Di colpo non conti più. Sei solo. E se ritenti, se ci riprovi di
nuovo, a farti degli amici, incontri superfici di parole che non vanno oltre le
chiacchiere da bar di provincia, i pettegolezzi. Mai davvero che si riesca a
dire quello che si pensa nel più profondo dell’animo.”
La
stretta di Mattia è di nuovo lì, a dominarmi la spalla, ed è più vigorosa di
prima. “A me puoi dirlo, quello che pensi.”
Sorrido
davvero, anche questo suo invito mi sembra sincero.
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